La condotta dei medici

E’ senza dubbio degno di nota il fatto che il comportamento alla base della mancata diagnosi del carcinoma di mia madre tenuto da sanitari che si sono avvicendati nella Sua presa in carico – che hanno agito in contesti, tempi e situazioni diverse, che non si conoscono tra loro e non hanno niente in comune – sia stato sorprendentemente uniforme, al punto da poterne tratteggiare delle caratteristiche comuni:
TUTTI infatti, hanno agito in modo errato sulla base di una serie di pregiudizi e fallacie logiche, alcune delle quali figlie della routine, altre, di inevitabili dinamiche sociali.
Riguardo a queste ultime, il pregiudizio più incidente è stato indubitabilmente l’ età della paziente (mia madre):
inutile fare mistero del fatto che – al netto del politically correct di circostanza – QUALSIASI medico dedicherebbe molti meno sforzi, attenzione e sensibilità diagnostica e clinica nel salvare la vita o perlomeno nel tentare di curare una paziente ottuagenaria che non una paziente trentenne. E’ un dato di fatto.
E – per carità – ci sta. Lo capisco. Da un punto di vista strettamente pragmatico ha più senso salvare o curare bene qualcuno che ha ancora una lunga aspettativa di vita piuttosto che qualcuno che la sua vita oramai l’ ha vissuta, non si discute.
Da un punto di vista umano invece le cose stanno molto diversamente, ma il punto è che a POCHI medici è concesso il DONO dell’ EMPATIA e questa di certo non si acquisisce con la laurea in Medicina…

Una delle fallacie logiche invece legate più strettamente alla routine medica è stato il cosiddetto pregiudizio di conferma, che in un paziente anziano è fortemente alimentato dalle comorbidità, che sono praticamente la norma.
Questa condizione dovrebbe indurre il medico colto a MOLTIPLICARE la sensibilità diagnostica nei confronti dei sintomi lamentati dal paziente, SOPRATTUTTO quando variano improvvisamente o diventano inusuali, mentre ciò che accade nella realtà clinica è l’ esatto opposto, ovvero, che il medico si adagia sulla convinzione che il sintomo sia legato a qualcuna delle patologie di cui il paziente già soffre (pregiudizio di conferma) e non esce da quella confort zone diagnostica.
Del resto la Medicina è scienza probabilistica: se senti rumore di zoccoli non pensi ad una zebra ma ad un cavallo. Eppure l’ inganno è proprio lì…
E’ ciò che sembra essere accaduto nel caso del MMG dott. Enrico Mignone, nel caso del dott. Dino Di Palma, e nel caso della dott.ssa Alessandra Pizziol.
Nel caso della dott.ssa Marisa Rillo invece è sopraggiunta una ulteriore fallacia logica, ovvero quella che potremmo definire come la cecità da specialità:
in altre parole, a fuorviare la dottoressa è stato l’ approccio “monolitico” nei confronti della paziente (mia madre) che a lei si era rivolta per ottimizzare la terapìa di controllo della glicemia; la Rillo si è focalizzata UNICAMENTE sullo specifico sintomo trattando il caso come quello di qualsiasi altra paziente diabetica che avrebbe preso in carico, perdendo completamente di vista il quadro d’ insieme e quindi l’ eventuale causa di fondo.

Infine, la fallacia dell’ aver riposto ciecamente fiducia ad auctoritatem, nella diagnosi formulata dal dott. Di Palma nel corso del precedente ricovero ospedaliero dandone per scontata la correttezza nonostante la mancata risoluzione dei sintomi, abbaglio che ha riguardato nettamente la d.ssa Rillo prima, e parzialmente poi la d.ssa Pizziol (si vedano eventualmente i rispettivi approfondimenti).